Martedì 6 aprile: qualcosa è cambiato. Stamattina una strana emozione. Dovrebbe essere una mattina come tante. Ma non lo è.
Vado a lavorare (sempre senza un obiettivo) ma stavolta mi manca qualcos’altro. La sensazione di cadere nel vuoto di questi ultimi mesi ora è … senza paracadute. Il 2 aprile si è rotto. Il presidio in qualche modo dava una sensazione di sicurezza. Potevo andare a parlare con i miei amici e colleghi. Quelli con cui condivido le stesse emozioni.
Ora devo stare in stanza con chi non sono sicuro mi capisca realmente. Perché ha smesso di lottare (o di reagire) da tre mesi.
“Vorrei che fosse già domani” mi ha detto il Procione.
Mercoledì 7 aprile: sciopero e presidio davanti al tribunale fallimentare di Roma. Siamo in attesa della sentenza: noi vogliamo l’amministrazione straordinaria, l’azienda ha presentato il concordato. Alle 12 ci dicono che uno dei giudici sta male e non ci sarà consiglio e tanto meno sentenza. Tutti a casa con la coda tra le gambe e il paracadute sempre più rotto. A domani.
Giovedì 8 aprile: Esco dal lavoro fiduciosa. Speranzosa. Vado a mangiare qualcosa con gli altri manifestanti e insieme aspettiamo la sentenza. Mentre mangiamo arriva la notizia: i giudici hanno deciso di dare altro tempo all’azienda per presentare i documenti mancanti. Sembra un po’ il decreto salva-liste. E la caduta è vertiginosa.
E’ da giorni che penso alla famosa citazione dal film L’odio:
Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.
Venerdì 9 aprile: al lavoro mi scontro con gli ignavi che mi deridono per il mio accanimento nella lotta, e mi danno pure lezioni di vita. Uno mi dice: “Tu non sai. Ci sono persone che stanno male, che piangono a casa. Non si può giudicare”. Beh certo detto a me che: che vado a lavorare senza soldi, mi faccio il maggior numero di presidi e scioperi, cerco di mandare avanti la mia famiglia, la mia vita. E mi becco i calci sotto la sedia per farmi stare zitta dal Procione. “Non ti curar di loro” è il suo motto.
Sabato 10 aprile: Sono andata ad un dibattito su/tra lavoratori (ex) Eutelia e Ispra . Si parlava anche della situazione dei nuovi schiavi a Nardò, in Puglia. Un dibattito alla parliamoci addosso, nel senso che purtroppo ce lo diciamo tra noi… ma la gente “comune” pare non accorgersi di cosa succede veramente in Italia.
Avevo trascorso praticamente tutto il giorno al negozio dei negozi come Edo ama chiamare il centro commerciale. E dopo una giornata immersi nel consumismo (anche se noi andiamo mirati sulle necessità vista la scarsissima liquidità del periodo), avrei voluto che tutti quegli zombi (perché come insegnano i film orror agli zombi piacciono i centri commerciali, ndr) fossero presenti.
Il mio umore se già non particolarmente alle stelle subisce le parole dei relatori. E le lacrime non si fanno attendere.
C’è qualcosa di sacro nelle lacrime. Non sono il segno della debolezza ma del potere. Sono i messaggeri di un dolore schiacciante e di un amore indicibile. [Washington Irving].